XVII edizione, 21 agosto 2004
Il nutrito numero di partecipanti a questa 17a edizione, che ringraziamo per la loro partecipazione, oltre a procurare un sincero compiacimento per il continuo successo dell’iniziativa, sta altresì a confermare il crescente numero di coloro che si cimentano nel non facile esercizio della poesia.
Perché tutto questo?
Per dare “ senso
e passione “ al quotidiano, come sosteneva il Vico?
Perché la poesia
deve essere intesa come verità assoluta, di gran lunga superiore alla filosofia,
come sosteneva Schiller?
O perché la poesia ha il compito di affinare
e salvaguardare la dignità del linguaggio “carico di significato al massimo
grado possibile”, come sosteneva Abbagnano?
Innumerevoli possono
essere le risposte quanto innumerevoli sono i modi di pensare dei singoli.
L’importante
è che l’esercizio della poesia costituisca comunque sempre un affinamento
dello spirito, una discesa nel profondo di noi stessi, alla ricerca della
bellezza e della verità.
Questa pubblicazione, oltre a ricordare l’impegno della ricerca dei partecipanti, intende favorire l’incontro con i lettori, i quali, nel momento in cui si uniscono agli artefici, si trasformano essi stessi in poeti.
Eraldo Odasso
La giuria ufficiale del Premio, composta da:
Luca
Necciai (Presidente)
Graziella Granà (VicePresidente), Luciano Gallino
ed Emiliano Moncia,
coordinata nei lavori da Eraldo Odasso
dopo
aver esaminato gli elaborati pervenuti al Concorso, ha espresso all'unanimità
la seguente graduatoria:
1° Classificato assoluto Certe ore (autore: Giovanni Galli)
2° Classificati ex-aequo Favola triste (Cristina Mantisi) Via Molino (Paolo Odasso)
3° Classificati ex-aequo Emozioni d'inchiostro trasparente (Alessio Rizzello) Croci (Franco Robaldo) Il compleanno (Stefano Tonelli)
Segnalazioni per merito Vorrei (Carla Parodi) Autunno (Jolanda Pettinaro) Rami (Sergio Zanoccoli)
Poesie Premiate:
CERTE ORE
Certe ore Rex (ansante) ti osserva e, lungo il grano, passa nessuno.
Nessuno passa, chè il pennino aguzzo del sole
rado il ciglio raschia e la carta incide (candida) del cuore.
Se dalla cascina dei Franco, certe ore, sbucasse di botto un trattore
e, con fragori crescenti, in saluto ci alzasse una mano,
morderemmo (pazzi e roventi) grani di polvere, ma -sorridenti- penseremmo lontano.
Lontano, certe ore, è oltre l’azzurro pennacchio di scarico
che, silenzio tornato, nel ventre del nuovo granturco dilegua
e (supìno) più non ha il rimorchio colore o sussulti, ma fuga di rapida rondine.
Rizza il pelo Fama e (inesausto furore) esige, ancor latrando, arcane parole d’ordine.
Lontano, certe ore, è oltre le spighe gialle di Lino,
ove notti stellate compassi dirigono mùrmuri di vento
(falangi buie di sogni e di paure)
e, a terra, punte infiggono d’argento magie d’agognate mietiture.
Lontano, certe ore, è bronzeo l’uomo (o un dèmone iroso)
che, nel fosso melmoso, affonda possente vangata e l’estrae pesante
e solo sai chi è se indovini dove la terra (di fresco rullata) fosco ha confine.
Lontano, tra fiamme d’ortiche assassine,
è -su tremuli pioppi- di trasparenti ronzii un velo
che (di vergine miele rabescato) alate regine ha incoronato
e (se il giorno è più luce) circolari d’api danze conduce, certe ore,
a fonti vive di nèttare e d’amore.
Lontano, certe ore, è il passo di Renard che, terso sommesso il pianto delle paratìe,
mai doma cercando va (nel brullo gerbido dei secoli) un rosso filo che a vigne solatìe
la conduca (subdola e sgusciante come un tòpo)
e (forte) famelico in un niente il balzo innalzi (suo finalmente) all’odiato grappolo di Esòpo.
Certe ore, affilate ardono auree stoppie e, lungo il campo lontano, passa nessuno.
Nessuno passa lontano, chè il pennino aguzzo del sole
rado il ciglio raschia e la carta incide (candida) del cuore.
VIA MOLINO
scendeva ripida e contorta,
strisciando i suoi fianchi
contro vecchie case
posate per caso
verso il Molino.
I ciotoli brandivano
lembi di pelle
di giovani affannati.
Oggi
ansima la risalita,
insieme al vecchio
che tra fiumi di ricordi
ripensa al saltellare
felice,
tra ciotoli di illusioni.
FAVOLA TRISTE
Isabella era bella
la sua principessa come una stella
cantava la mamma
stringendola a sè
tra i capelli di grano
fiordalisi di cielo.
Isabella cresceva nel sogno
di un suono di valzer
tra cristalli di luci
e saloni incantati.
Aspettava la mamma
parlando e sognando
inventando ogni giorno
la favola bella
del ballo a palazzo
col suo cavaliere.
Cresciuta è la piccola fata
ma la strada ha perduto
tra gli alberi fitti
di un bosco di pietra.
Pozioni d’inganno per veder miraggi
illusioni di monete dorate
nella pentola nera
alla fine dell’arcobaleno senza colori.
Adesso balla,Tibbie, da grande,
assordata su un cubo macchiato
manichino snodato dai capelli laccati.
Perle di mare perdute
in un vecchio cassetto
insieme a un vestito mai messo
per il suo primo ballo a Vienna.
Ciocche di spaghi imbrattati
piercing sul corpo
e tatuaggi di odio.
C’è qualcuno che invecchia
lontano dal cuore
portandosi un ricordo
che mai è stato vissuto
e gracchia impietoso il suo valzer
sul disco che gira
saltando sulle righe del tempo.
CROCI
(a
Sarajevo)
Lassù
sul dolce pendio della collina
dove crescevano rigogliosi
il pruno e il melograno
ora svettano soltanto croci.
Là
nel verde prato fiorito
dove giocavano spensierati
bimbi di diverse etnie
ora spuntano soltanto croci.
Laggiù
nel piatto campo sportivo
dove il vigore atletico
raggiungeva mitiche espressioni
ora vedi soltanto croci.
Croci lungo le strade.
Croci nei villaggi distrutti.
Croci nel cuore della gente.
Odio negli occhi degli uomini.
Odio nel seno delle madri.
Odio perfino nell’anima dei bambini.
A chi posso chiedere:
perchè tanto odio.
Perchè tanto scempio.
Perchè tanti morti.
A Te
Signore mi rivolgo
e Ti prego, ascolta la mia voce.
Non abbandonare il Tuo popolo
che ha perso la ragione.
EMOZIONI D’INCHIOSTRO TRASPARENTE
Pesanti lancette
Di orologi scordati
Ritagliano ombre
Nella stoffa dei sogni
Una musica lieve
Avvolge nel buio
I nostri corpi lontani
L’alba è un miraggio di sabbia
L’inverno dentro il cuore
Seppellisce parole nel passato
Muovendo altri passi
Su strade già perse
Cerco la via che porta a me
Il tuo amore di cristallo
Scompare nell’inchiostro
Nero di vergogna
Mentre una poesia
Di metafore in plastica
Lo nasconde per sempre
Mi abbandono a te
Solitudine sensuale
Solitudine assassina
Di gioie e sofferenze
Abbracciami di silenzio
Ingannami ancora
Con l’infinita promessa
Di un equilibrio irreale
IL COMPLEANNO
Sono nato il 19 di Marzo
a San Giuseppe - Festa del papà.
Quel giorno nessuno festeggiò
la lieta coincidenza
di quella paternità
non voluta, forse ignorata.
La madre, quella domenica
triste di sgravò del peso,
tra lacrime, sangue,
dolore e tormenti
che pure sparse in me,
con dolce regalo sgradito.
Poi uscì dall’ospedale,
lasciando quel pianto di carne
alle cure di infermiere pazienti,
leggera nel grembo
ma svuotata d’amore,
e col seno generoso di latte
si disperse nel mondo.
Dopo tanti anni, io ancora
non oso celebrare quel giorno
che non mi rese felice.
Aspetto che passi, soltanto
mi volgo invano allo specchio
cercando quei tratti familiari,
oscuri e ignoti.
E pensando a quel San Giuseppe lontano
non piango, ma mi si stampa in viso
un muto ed amaro sorriso,
e chiuso nel mio segreto rifugio
osservo il volto sgomento
di quella giovane donna impaurita
che troppo presto ebbe in seno una vita.
AUTUNNO
Corrosa cartapesta accartocciata dal crono,
rossi spiriti, sottili sementi,
lievi lacrime leggere e vaganti,
dalla pianta piante, alla terra in dono.
Piovono placidi, paiono piume,
decrepiti frammenti di rugosi tessutii
poi aureo manto di fragranti tappeti,
profuma il bosco di soffuso lume.
Funghi grassi, generosi, gongolanti
la terra partorisce, saporiti, spugnosi.
Il castagno fiorisce ricci tondi, spinosi,
brune campanelle al vento vibranti.
Di copiosi grappoli pieni e traboccanti,
pullulano pergolati opulenti
croccanti chicchi succosi tra i denti
e dolce ambrosia sulle papille fiammanti.
Il velluto, smeraldo e latente,
fodera, sonnolento e silenzioso,
addormenta il bosco, seducente
col soffice guanciale odoroso.
Il cupo piombo della vuota volta
si graffia di migranti e neri voli,
rigida e sinuosa nube folta,
presagio di novelle liete o doli.
La tacita atmosfera di partenza
s’infonde nel sangue e nella linfa
ed il grigio s’insidia con violenza,
impera una purpurea e gialla ninfa.
Un vento di vecchiaia e cose amare
trascorre i rami ruvidi e ritorti,
nell’accanito intento di rubare
gli anelli dai pietosi arti morti.
Rossi spiriti, grossi grappoli,
muschi morbidi, rami ruvidi,
terra torbida, tinte tremuli,
erranti rondini, gialli vividi,
pioggia pallida, grevi giuggioli,
luci lucide, soli languidi.
Languenti lacrime e tu già riparti
la gola strozzata, gli occhi roventi
ti fermi un istante, no, non voltarti,
poi lune di interni feroci lamenti,
soli di ricordi, di recitar parti
vivendo nei nostri passati presenti
oh vento d’autunno che profani le piante
perchè hai penetrato il mio animo amante?
RAMI
Rami protesi al cielo,
in un giorno di primavera,
germogli nuovi
speranze sbocciate alla vita.
Rami protesi al cielo
in un giorno d’estate,
“prendete vi prego i miei frutti
prima che cadano dimenticati
sulla nuda terra”.
Rami protesi al cielo
in un giorno d’autunno,
foglie secche portate dal vento
ricordi e tempi perduti.
Rami protesi al cielo
in un giorno d’inverno.
Io sono un albero,
le mie braccia
rami secchi,
nudi e stanchi
protesi verso il cielo,
nell’attesa di una nuova stagione.
VORREI
Vorrei vedere il mondo con gli occhi di un bambino,
ora come allora,
quando uno scalino pareami ancora
una irta montagna da scalare
e un albero un gigante che,
scosso i rami dal vento che incalzava,
piegandosi sul fusto suo possente,
con le sue fronde
nel movimento mi sfiorava
quasi volesse il mio viso accarezzare.
Vorrei poter ancor fantasticare
di folletti e di fate che nel bosco stavan e,
talvolta, nel silenzio del meriggio
in coro mi chiamavan
per partecipare alla serena gioia
che, in quelle ore quiete,
del prato in mezzo ai fior io mi godea.
Vorrei scorgere ancor quel microcosmo
che silenzioso e indaffarato si cela al di sotto di uno stelo
e beata coricarmi su un tappeto azzurro,
soltanto trapuntato di non ti scordar di me.
Vorrei...Ma perchè no? Il mondo mio infantile
racchiuso sta tutto in un baule
che tengo chiuso a chiave serbato nel mio cuore,
e quando mi soffermo durante il mio cammmino
a ricordar le cose del passato,
la chiave che lo apre mi permette
di ritornar bambina a calpestar quel prato
e a rivedere i magici momenti
che solo occhi innocenti e sgranati a dismisura
riescon a integrarti con tutta la natura.
Allora le fate ed i folletti dal limitar del bosco
ritornano gioiosi ad invitarmi e tosto
io sono lì con loro
che canto, col capo inghirlandato,
nel più stupendo coro
che fantasia e cuore mi abbian mai donato.